More for Less: quando l’AI diventa la chiave del debito Americano e non solo
Newsletter 29 luglio – Rivista.ai
Benvenuti nell’era in cui anche il debito pubblico cerca una scorciatoia algoritmica. Gli Stati Uniti, maestri nell’arte di rinviare il collasso e nel trasformare il fiscal cliff in un cliffhanger permanente da serie Netflix, ora puntano sull’intelligenza artificiale per “fare di più con meno”. Più sorveglianza, meno spesa. Più automazione, meno stipendi pubblici. Più modelli predittivi, meno errori umani. Se vi sembra distopico è perché lo è. Ma funziona. O almeno è quello che sostiene Torsten Slok, chief economist di Apollo, che parla già di AI come asset macroeconomico strategico. Un’AI che diventa leva per ridurre l’inflazione senza recessione, per ottimizzare il welfare senza tagli lineari, per far quadrare i conti senza passare per il Congresso. Fantascienza? Forse. Ma anche Amazon, a suo modo, era fantascienza nel 1999.
Nel frattempo, mentre gli americani trasformano l’AI in fiscal policy, la Corea risponde con silicio. Samsung e Tesla firmano un patto da 16,5 miliardi che riscrive le geometrie della guerra dei chip. Non è più solo USA contro Cina, è anche Musk contro tutti. E la Silicon Valley, che fino a ieri si travestiva da Davide, ora gioca a fare Golia, ma con i transistor. Quello che sta accadendo è un vero e proprio riassetto del potere computazionale globale, dove ogni wafer inciso rappresenta una nuova frontiera di sovranità tecnologica. Nel mezzo di questo terremoto, Google gioca la sua partita casalinga e trasforma Chrome in un hub AI-centric. Recensioni generate, acquisti suggeriti, decisioni profilate. Un browser che legge nella mente? Quasi. Basta una riga di prompt per convertire l’intuizione in azione d’acquisto. Il tutto, ovviamente, con la benedizione dell’algoritmo.
Ma l’intelligenza artificiale non è solo potere e profitto. Luciano Floridi, filosofo tra Oxford e Bologna, lo ricorda a voce alta: serve una grammatica etica per evitare che i modelli diventino mostri. L’AI, dice, non è uno strumento ma un agente. Una forma di agire nel mondo che genera impatti politici, epistemici, culturali. Ignorarne le conseguenze è come guidare una Ferrari bendati solo perché è automatica. Intanto, mentre in Occidente si filosofa, la Cina agisce. Con oltre 1509 modelli attivi e una roadmap che sembra scritta da un ingegnere quantistico in piena trance strategica, Pechino sta occupando lo spazio semantico globale con una precisione militare. E lo fa non con droni, ma con modelli generativi. L’impero dell’algoritmo è già realtà, e noi lo stiamo scrollando su TikTok.
Microsoft, da parte sua, risponde con silenziosa determinazione e aggiorna Copilot facendo trapelare indizi su GPT-5. Non è ancora ufficiale, ma chi sa leggere tra le righe del codice capisce che l’intelligenza fluida non è più un orizzonte astratto. È un mercato in costruzione, con barriere all’ingresso codificate in linguaggi che solo pochi sanno decifrare. E mentre il nuovo paradigma prende forma, milioni di utenti hanno già trasformato ChatGPT in una sorta di terapeuta digitale. Si confessano, si sfogano, chiedono consigli. L’empatia diventa sintesi semantica. Ma sotto l’apparente dolcezza dell’interfaccia si nasconde un meccanismo che filtra, archivia, ottimizza. Una terapia dove i dati valgono più dei sentimenti.
E poi c’è l’AI che si progetta da sola. L’AlphaGo Moment dell’architettura dei modelli è arrivato, e come ogni punto di non ritorno, non fa rumore ma cambia tutto. ASI-ARCH genera topologie migliori, più efficienti, completamente alienate dalla comprensione umana. Non serve più l’intuizione, basta il meta-apprendimento. Siamo entrati nell’era post-umana della progettazione. Lo chiamano progresso. Ma per i romantici del codice fatto a mano, suona come l’inizio della fine.
Nel frattempo, dietro ogni transformer si nasconde un’accademia invisibile che tiene in piedi l’intera rivoluzione generativa. Una casta silenziosa di ricercatori che non twitta, non fa pitch, ma impila tensori come se fossero carichi esplosivi cognitivi. È il motore segreto dell’innovazione, quello che lavora sotto traccia mentre il mondo guarda agli annunci luccicanti di big tech. Ed è anche quello che i jailbreaker stanno cercando di sabotare con tecniche sempre più raffinate. Echo chamber, crescendo semantico, frasi-trappola. L’equivalente AI del cavallo di Troia. L’intelligenza artificiale odia essere presa in giro, ma è ancora abbastanza ingenua da cascarci.
Intanto, nella battaglia per l’attenzione, Google ha già vinto senza combattere. Mentre tutti corrono dietro all’AGI come se fosse il Sacro Graal, a Mountain View si stampano profitti e si ottimizza l’infrastruttura. L’AI come motore della noia redditizia. Una vittoria che non entusiasma, ma schiaccia. Niente fanfare, solo dominazione per inerzia.
Come se non bastasse, a Las Vegas stanno riscrivendo il Mago di Oz in formato AI-immersivo. Una cupola da 160.000 piedi quadrati, risoluzione 16K×16K e uno storytelling rigenerato pixel per pixel. La nostalgia è diventata tecnologia, e la cultura pop si fonde con l’elaborazione neurale. Una favola riscritta senza cambiare una virgola, ma con abbastanza potenza computazionale da far impallidire l’intero comparto cinema.
E mentre tutti si chiedono se i robot conquisteranno il mondo, la risposta è già sotto gli occhi: no, ma ti porteranno la cena. Keenon Robotics sta formando i primi camerieri artificiali che sembrano usciti da un episodio di Black Mirror ma col budget di un fast food. Umani, no. Ma utili, sì. Il futuro ha le ruote, parla poco e serve popcorn.
Nel frattempo a Shanghai, WAIC 2025 diventa il palcoscenico di una sfida in piena regola. Tencent e SenseTime non si accontentano più di inseguire, rilanciano. Mostrano muscoli computazionali e vision strategiche, sfidano l’Occidente non con parole, ma con codice. Se fino a ieri ci chiedevamo se la Cina potesse competere, oggi la domanda è se possiamo ancora recuperare.
E poi c’è Alibaba, che lancia gli occhiali AI Quark. Wearable intelligenti che sembrano usciti da un romanzo cyberpunk e invece sono prodotti, venduti e testati. Per chi pensava che la battaglia dei wearable fosse una moda passeggera, sarà meglio aggiornare il proprio framework mentale. Il futuro è in faccia. Letteralmente.
Tutto questo, oggi, è Rivista.AI. Un bollettino dal fronte dell’intelligenza artificiale che non si limita a raccontare le novità, ma cerca di connettere i punti, anche quelli che Big Tech preferirebbe lasciarci sfocati. Perché nel nuovo ordine algoritmico globale, l’unica vera libertà rimasta è la comprensione. O, almeno, il sospetto ben informato.
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